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Le vie del Bitto in Valgerola

La montagna e il bosco sono la mia casa.

Chi mi conosce, anche non troppo bene, sa che mi sento bene nella fascia che va dai 900 ai 2200 metri di quota (metro più, metro meno).
In una parola sola, alpeggio.

Parlo di quella parte di montagna che è caratterizzata da vegetazione. Non disdegno la roccia, sia chiaro, e nemmeno l’altitudine che supera i 2200 metri. Ma se devo dire qual è la mia montagna preferita, è quella della malga.

Girare i pascoli dell’arco alpino è un sogno di ormai qualche anno. Mi son sempre detta però, che prima di uscire dai confini per esplorare il mondo monticato, avrei dovuto conoscere e approfondire quello trentino.
Beh, stiamo parlando di circa 500 malghe, di cui poco meno di 300, attive. Cosa vuol dire “malga attiva”? Presto detto: la malga attiva è quell’area montana dove è presente l’animale da pascolo e/o da latte. Dove viene mangiata l’erba, per capirci. Le malghe attive da latte sono circa 200 mentre quelle in cui c’è la lavorazione e la trasformazione del latte sono circa 120 (117 per la precisione). Un numero importante che negli ultimi vent’anni è decisamente cresciuto. Ne conosco più della metà ma me ne mancano ancora molte all’appello.

Il pallino di stagionare i formaggi invece mi è venuto alla prima Asta dei Formaggi di malga organizzata in Val di Sole, nel 2015.
Il mio sogno è far riposare forme diverse di diversi alpeggi su delle assi di betulla di una scalera, in un posto fresco.
Pensare all’evoluzione dei colori, dei profumi, del sapore.
Quando assaggio negli anni lo stesso formaggio, mi sembra incredibile constatarne i cambiamenti. Eppure, come per il vino, è la magia dell’affinamento.

E nel 2019 ho iniziato ad andar per malghe e acquistare seriamente.
Al momento del Trentino, ne ho 5:

Malga Bordolona – Val di Non,
Malga Bolentina – Val di Sole,
Malga Mondent – Val di Rabbi,
Malga Samocleva – Val di Rabbi,
Malga Zochi –
Vezzena.


Questa passione per i formaggi di malga la condivido con l’amico Alan, aiuto insostituibile per la stagionatura del prezioso tesoro.
E così come regalo per il suo compleanno, abbiamo svalicato il Tonale e siamo andati nella valle del Bitto, uno dei grandi formaggi dell’alpeggio italiano.
Bitto o storico ribelle? Eh, lunga la storia qui. E non ci voglio nemmeno entrare nella questione che ormai da anni riguarda il metodo di produzione e l’uso o meno del termine bitto per alcuni dei formaggi che provengono da Gerola Alta.

Posso solo raccontare la giornata in quella bellissima zona delle Alpi Orobiche e parlare delle persone che ho conosciuto.
Per me era tutto nuovo, tutto da scoprire.


Siamo capitati a Malga Pescegallo-Foppe (alt. 1454 m) per caso, nel momento peggiore della giornata di un casaro: l’ora di pranzo.
Lucia ci ha accolti con un grande sorriso e ci ha raccontato un po’ di storia, della malga e del nonno Mosè Manni. Per chi è dell’ambiente questo nome è molto famoso. Mosè insieme ad altri ribelli nel 2001 ha avviato la rivolta dei produttori per salvare il metodo storico di produzione del Bitto. Lo conoscevano tutti per questo motivo ma anche perché ha vissuto la malga per una settantina di stagioni, praticamente tutta la sua vita.

All’interno della sala di stagionatura con tanta pazienza (due bimbi piccolissimi al seguito), Lucia ci ha raccontato come si produce il Bitto.
40 vacche producono 2 forme al giorno. Una forma a pasto, due munte, due forme.
Il latte di vacca appena munto viene aggiunto a quello caprino per circa il 10-20%, ottenuto dalla razza orobica (razza autoctona a rischio di estinzione) e lavorato a crudo nel calècc (“queste tradizionali millenarie costruzioni in pietra proteggono la zona di caseificazione e fungono da baita di lavorazione itinerante, in modo che il latte non debba viaggiare, se non per pochi metri, e possa essere lavorato prima che il suo calore naturale si disperda” cit. Piero Sardo, Slow Food). Poi ha chiamato il casaro, suo marito Michele che durante il resto dell’anno è un boscaiolo. Il primo minuto la sua espressione parlava per lui, proprio perché probabilmente si era appena seduto a tavola. Ma poi ha capito che non eravamo solo curiosi ma anche appassionati ed è rimasto con noi un bel po’ a raccontarci del formaggio. Guardava le sue forme con grande affetto, le accarezzava con dolcezza. Quando ne abbiamo portate via due (una da 9,3 kg l’altra di 9,7), ho visto un po’ di difficoltà al momento del distacco. E vedere questi uomini di poche parole così attenti e innamorati del proprio lavoro e dei propri prodotti, mi regala sempre una gran gioia.
Anche se per poco tempo, Lucia e Michele, ci hanno aperto un mondo sull’alpeggio non-trentino, regalandoci ancor più voglia di scoperta e tantissima curiosità.
Siamo scesi dalla malga con le nostre forme, felici come due bambini.

La giornata si è conclusa nella sede del Consorzio per la Salvaguardia del Bitto storico che “garantisce l’acquisto delle forme ad un prezzo etico, commercializza e promuove questa eccellenza a livello nazionale ed internazionale”.

Due note sul progetto dello Storico ribelle.
Il progetto per tutelare questo formaggio nasce nel 2002 quando gli allora 16 produttori d’alpeggio (oggi 12), rappresentati da Paolo Ciapparelli , si unirono nell’Associazione Valli del Bitto e si occuparono di predisporre un disciplinare di produzione fedele al metodo storico.
L’obiettivo principale era quello di salvaguardare una serie di pratiche tradizionali che esaltavano la qualità del prodotto, conservare l’ambiente e la biodiversità alpina.
Nel 2003 venne riconosciuto come Presidio Slow Food e subito dopo nacque l’idea di realizzare una Casera di stagionatura a Gerola Alta dove i produttori potessero conferire il formaggio prodotto secondo il metodo storico, al momento della discesa dagli alpeggi.

Cosa posso aggiungere? La scalera ha sui suoi ripiani, un nuovo e prezioso gioiello dell’arco alpino. Credo di avere anch’io lo stesso sguardo di Michele di fronte alle mie forme e so già che mi dispiacerà moltissimo aprirle. Ma so anche che sarà un momento di festa, di grande soddisfazione e di riconoscimento per tutte quelle persone che con grande fatica, oltre che passione, ogni estate fanno vivere e curano i nostri alpeggi.

Buon compleanno Alan (in ritardo per il 2019, in anticipo per il 2020)!

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